Ritorno sulle orme Perdute

Profumo di Gelsumina (detta Gérsuma)

 

Gelsomina; abitava nel rione San Francesco, dirimpetto al Ghello (venditore di pannina) a pochi metri dalla Coop di allora, (c’era commessa la Lorena della Cina e la moglie del Frosini), qualcuno in più da Piazza San Francesco, dove sorge la Chiesa, bella imponente con il mistico campanile, la facciata del Santo con i poveri….. insomma una chiesa Gotico romana.

Gelsomina, una figurina gentile e ben tenuta nella sua semplicità, era una tessitrice, svolgeva il lavoro in casa, giù nello scantinato sito sulla strada; si scendeva quattro scalini e lì aveva la sua fabbrica con il bel telaio da cui traeva piccoli vantaggi economici.

Tesseva tovaglie, tende, asciughetti, asciugamani, grembiuli, era bello vederla lavorare con grazia infinita (lavorava per una ditta di Firenze) ed ogni qualvolta completava la sua giornata

Gelsomina donna molto semplice, la si vedeva anche d’intorno (come si dice a Buti).

Vestiva con colori tenui e sopra un grembiulino a quadri tessuto da Lei, scarpe ben lucide, con i suoi passettini svelti e leggeri pareva sfiorasse il terreno.

Non era molto alta, ma era graziosa, quello cui mi colpiva di più, la pettinatura. Capelli ben tirati di colore castano dorato sin sopra la nuca, girati a treccia formando un piccolo cigno dormiente.

Ogni tanto nelle variopinte giornate che  regalava la primavera, profumate di fiori di mughetti; di muschio, la si udiva cantare. Cantava canzoni di quel tempo o brani del Maggio Butese, la preferita “fiori Fiorello l’amore è bello vicino a te”. Il canto era seguito dalla chiacchera che scorreva nel telaio intrecciando i fili.

Gelsomina aveva una sorella di nome Antonia sposata a Micio. Antonia, donna al quanto burrascosa, per niente s’infuriava, specie quando da casa udiva cantare “fiori Fiorello”; usciva di casa correndo a litigare.

“Gersuma o Gersuma smettila, non senti come sei ridicola, tutti ridono di te gridava, anche se smetti per quello che pigli!” Poi se ne andava lasciandola confusa e in pianto.

Gelsomina mi raccontava: “ E’ venuta a gridare a dirmi: per quello che guadagni? Io mi accontento del giusto e dell’onesto, pensa ho rinunciato a prendere marito per aiutarla! Poi vedi?  Se non ci fosse la mia nipotina Liviana che adoro chissà dove ero” “ Non piangere, tutti sono felici quì nel rione; quando canti porti bene si rallegra il cuore e il cielo, vedi il sole è per te”. Mi guardava con quelli occhi vispi e riprendeva il lavoro.

Nelle ore calde e silenti d’estate si radunavano diverse comari (o vicine)  nella piazzuola antistante a frescheggiare e confabulare di avvenimenti paesani: “O Gersumina, ma te lo sai di quello, o Gersumina L’hai vista passare Quella? ” Gelsomina si spazientiva, non per le domande, ma per come sciupavano il suo nome. Più volte andava in litigio, oppure se ne andava.

“Sono ignoranti, sempre così diceva” Ma tu come ti chiami? chiesi. “Gelsomina” “ Bello, é bellissimo Gelsomina; è nome di un fiore profumatissimo e delicato, mi fa piacere saperlo, da oggi ti chiamerò Gelsomina.”

“Sai; Gelsomina è il nome di battesimo nessuno mi ha mai chiamato così; solo la mia mamma, io ci tengo tanto ma… lo leggeranno sulla mia tomba”.

Sgranai gli occhi scuotendo la testa a punto interrogativo, poi mi ripresi dicendo: “Nei paesi di solito hanno tutti un soprannome (pensa me Argia di Ghiano) è il dialetto un pò pantaleone.”

 Ma…… sussurrava sarà! Quando passavo con il carretto del latte (fin dalla infanzia ho lavorato con i miei genitori). Mi soffermavo “Gelsomina buon giorno” lei alzava la testa sorridendo: “Vieni siedi qui vicino a me.” Si parlava di tante cose, voleva insegnarmi la tessitrice.

“E’ ora di andare Gelsomina ci vediamo.” (a volte basta poco per fare felice il prossimo però……

Però è bello sentirsi chiamare con il proprio nome di battesimo, rallegra il cuore come a questa Musa, poi è il nome che Dio ispira agli orecchi della mamma o del padre, come lo sussurrò Lia moglie di Abramo e a Zaccharia padre di San Giovanni Battista.

Gelsomina si sentiva felice e onorata, quando di buon mattino si alzava guardando il cielo, ancora scorgeva tenue stelle trascinate dal carro dell’orsa maggiore, mentre l’aurora si apriva il varco tra mille colori nelle vie del cielo, e stormi di uccelli si dileguavano volteggiando nell’immenso.

Beveva il suo caffè, poi sedeva al telaio, le faceva compagnia un gatto tigrato di nome cicci, parlava con lui come un amico.

Anche dìinverno lavorava al suo telaio, quel fondo era umido ma, a lei non importava, lavorava di passione, ci teneva a fare bella figura con quel signore di Firenze. Veniva su al fine di settimana a ritirare il lavoro, (forse era lui quel fiori Fiorello)

Lavorava svelta sui pedali della tela, teneva sotto la sedia e a lato due caldani di coccio con la brace per scaldarsi; allora non vi erano i termosifoni, c’éra un bel camino sempre acceso con su (sopra) tronchi di olivo o di pino.

Dai comignoli usciva fuori spandendosi nell’aria un odore di chieta (ragia) e olivo si sentiva un profumo di montagna odore del mio Buti odore di sano.

Gelsomina lavorava sino al tocco, poi si ritirava, il freddo era più forte di lei.

Lavorava sempre cantando, così continuo per tanto tempo. Un giorno tornò quel signore di Firenze senza preoccuparsi tanto di Gelsomina disse: Non posso più venire, l’industria ha avuto un grande rilievo, perciò ora mi servo altrove, Gelsomina lo guardava con quel musetto curioso mentre dagli occhi scorrevano lenti rivoli di lacrime.

Salutò il signore con grande dignità, degna di una regina, si regina, al paese c’era solo lei.

Ricordo eravamo in settembre, l’aria satura di fiori, di mosto e trilli di uccelli. Per il borgo si sentiva allegri gridolii di bambini, correvano su e giù per il rione giocando a rimpiattino.

“Non c’è più lavoro Argia, l’ultimo tempo e fino a ottobre poi chiudo disse con voce roca (sembrava un piccolo cerbiatto ferito) mi piace questo lavoro l’ho appreso da bambina e poi mi da vita, che faccio dopo, cosa faccio!?” Era pallida e tremula.

“Gelsomina hai la nipotina, dedicati a lei, tu hai sempre detto è tutto il mio bene.”

“Forse ragioni bene, si è giusto” rispose. La notte e il giorno corsero in fretta, e in fretta passò pure ottobre, ricordo il silenzio del borgo e la porta chiusa a noce.

Fu cosi che non si senti più la chiacchera del telaio e il Fiori Fiorello di Gelsomina.

 

 

31 01 2006          Argia Bonaccorsi